Quando lo psicologo entra in cucina
[vc_row font_color=”#000000″][vc_column font_color=”#000000″][movedo_title heading_tag=”h2″ heading=”h1″ increase_heading=”140″ custom_font_family=”custom-font-1″]Quando lo psicologo entra in cucina[/movedo_title][vc_column_text text_style=”leader-text” css=”.vc_custom_1659617209956{background-color: #ffffff !important;}”]Chi mi conosce sa che io ho una fascinazione per la psicologia. Che dico fascinazione, temo ormai che sia evoluta in un credo religioso.
Il fatto è che io ho fede cieca verso le possibilità di trasformazione offerte dal ricorso alla psicologia, in tutti gli ambiti nei quali essa viene applicata. I miei amici ormai lo sanno e quando ci troviamo a parlare in serata nasano a distanza quando sto per intervenire con un “qui è necessaria un po’ di terapia”.
Quando in campo ci sono le relazioni, che siano intime o di lavoro, secondo me non esiste altra via, altrettanto efficace, per sondarne le incognite e trasformarle, che non passi attraverso il supporto psicologico.
L’approccio della psicologia alle incognite dell’umano è esso stesso rivoluzionario: entra dalla porta sul retro e va ad interrogare i “perché” che risiedono nel comportamento, invece che focalizzarsi istintivamente sui “che cosa”.
Questo è, a mio avviso, l’unico metodo efficace per agire cura nei confronti di sé stessi e degli altri: partire dal perché per poi individuare il come.
Difficile estendere le maglie di questo orientamento che mira a formulare risposte più che sganciare reazioni. La nostra è una società largamente basata sulla reazione, sulla velocità di replica più che sulla valutazione dei contesti.
E invece concedersi il tempo di valutare e di costruire consapevolezza consente di formulare soluzioni di ampio respiro, con potenzialità generative a lungo termine.
Percorrendo il sentiero di questa suggestione mi sono imbattuta, come spesso mi capita, in un articolo che affrontava il tema del burn – out nel settore della ristorazione.
E’ ormai oggetto di studio consolidato lo stress lavoro correlato che interessa gli operatori dei servizi, dagli infermieri ai camerieri, passando per gli operatori sociali: chiunque lavori al servizio degli altri prima o poi rischia di incappare nella stessa sensazione di svuotamento.
Burn out è, letteralmente, lo scioglimento della cera di una candela, che non si spezza ma si consuma lentamente, liquefacendosi su sé stessa. Questo è quello che, più frequentemente di quanto pensiamo, accade a chi lavora nella ristorazione, dal titolare all’interno di cucina: un graduale ma sistematico spogliarsi di motivazione, energie e benessere psicofisico.
In questa sede non indagherò le criticità organizzative che hanno interessato, ed interessano tuttora, il settore hospitality: non un articolo ma un intero report andrebbe prodotto sulle trasformazioni che andrebbero adottate per renderlo più sostenibile (e qui con “sostenibile” non faccio riferimento ad una conversione green ma ad una centrata sull’umano).
Di questo sopracitato articolo ha attirato il mio sguardo il riferimento ad un report, elaborato dall’Associazione “Ambasciatori del gusto” in collaborazione con l’Ordine degli Psicologi del Lazio ed intitolato “La psicologia al servizio della ristorazione: ricerca conoscitiva e best practices”.
Credo che questa ricerca abbia raccolto e tentato di colmare un sostanziale difetto di interesse della psicologia del lavoro nei confronti della ristorazione. Curioso considerato che, pur non profilandosi come un’azienda, la maggior parte degli esercizi ristorativi è di fatto un’organizzazione.
La ricerca condotta propone questo duplice percorso d’indagine:
- Sondare lo stato dell’arte del benessere psicofisico nel settore della ristorazione, utilizzando come campione gli iscritti all’Ambasciata del gusto: ristoratori, imprenditori, cuochi capo partita, pizzaioli, gelatai, chef, pasticceri e personale di sala.
- Evidenziare come lo stress lavoro correlato sia “effetto di problemi organizzativi” ed individuare possibili piste risolutive nel repertorio di costrutti, strategie e modalità d’intervento della psicologia del lavoro.
Attenzione: piste risolutive non vuol dire soluzioni, qui l’accento è posto sull’integrazione, sul ricorso a buone prassi che possono andare ad alleggerire il carico ma che non hanno pretese di trasformazione.
La proposta è quella di introdurre la psicologia del lavoro nelle organizzazioni ristorative al fine di incrementare la consapevolezza ed individuare buone pratiche da condividere per promuovere un’evoluzione interna che è già in atto.
Come emerso anche da questa stessa ricerca chi oggi si affaccia al lavoro nel settore dell’hospitality è alla ricerca di un ambiente umanamente più sano. Turni di lavoro che consentano un adeguato equilibrio tra vita lavorativa e privata, retribuzioni eque ma, più in generale, un clima interno di rispetto reciproco, coinvolgimento del personale, formazione e valorizzazione del vissuto emotivo.
Un’atmosfera di gruppo più sana certamente si regge su pilastri organizzativi fondamentali, senza i quali anche l’equipe più sostenuta fatica a rimanere in piedi, ma anche su uno sguardo rivolto all’interno, alla promozione di momenti di cura psicologica.
Introdurre la figura dello psicologo in cucina, allora, potrebbe essere una chiave di volta innovativa per potenziare il benessere organizzativo in questo settore.
La cultura dell’attenzione all’umano, ormai è evidente, deve entrare in tutti i settori lavorativi, pena l’implosione del sistema, anche per mancanza di personale.
Le nuove generazioni di lavoratori si mettono a disposizione di chi sa comunicare e praticare cura nei confronti del benessere psicologico ed esistenziale. Se le organizzazioni, che sono fatte di relazioni, vogliono continuare a prosperare devono puntare sul consolidamento e la tutela dei rapporti interni, facendo propri il linguaggio e le pratiche della psicologia del lavoro.[/vc_column_text][movedo_empty_space height_multiplier=”2x”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][/vc_column][/vc_row]